di Andreina De Tomassi
“…Per fare un tavolo ci vuole il legno…” la filastrocca di Gianni Rodari, musicata da Endrigo e Bacalov, sarebbe perfetta, ma non per questa piccola storia. Qui, per fare il tavolo ci vuole il ferro… E’ successo quando siamo arrivati (Antonio Sorace ed io) per la prima volta a Sant’Anna del Furlo, non eravamo mai entrati in questo minuscolo borgo medioevale alle pendici del Monte Paganuccio (Marche Alte). Abbiamo superato le quattro case in pietra rosa, e ci siamo inoltrati nel bosco, mano nella mano. Avevo un po’ paura. Era scoccato appena il Duemila, lasciavo di colpo la metropoli romana e mi inoltravo nel mio futuro: una stradina bianca sinuosa nel bosco ombroso. La casa spunta all’improvviso, un casone giallino, col tetto spiovente, nero. Entriamo. Era tutto abbandonato, un deserto. La casa degli operai dell’Enel e ancora prima dell’Unes, era stata costruita nel 1919, e fu abitata fino ai primi degli anni Novanta. Dieci anni di abbandono avevano causato danni soprattutto nel sottotetto e nel seminterrato. Scendiamo, buio pesto, con delle ragnatele da film horror, ma poi usciamo fuori, nello spiazzo che in seguito avrei chiamato il Giardino dei Ciliegi per via di 3 bellissimi alberi di ciliegie.
E proprio all’ombra dei vecchi ciliegi, notammo un lungo tavolo in cemento, ridotto molto male, frantumato, rotto in più parti.
Ricostruimmo che le sei famiglie che abitavano la Casa degli Operai, avevano costruito un tavolo per i loro pranzi collettivi, magari anche per delle feste in giardino, o una partitella a briscola, magari per qualche ricorrenza; si ritrovavano qui tutti insieme a mangiare e a bere, e, a quanto ne sapevamo, anche a cantare e a ballare. Del resto era chiamata la “Casa della gioia”, ci aveva raccontato Maria Lecci, la mamma di Antonio, che dal Passo del Furlo arrivava sin qui in bicicletta e sicuramente qualche volta si sarà fermata a ballare… Ma la cosa che colpì Antonio fu la panca. Una lunga asse di acciaio arrugginito, un residuo, un avanzo delle paratie servite per la Diga.
E quella fu la prima scultura del Parco creata da Sorace. Doveva essere il 2004, un anno dopo l’acquisto della casa giallina.
Un omaggio alla convivialità e anche al lavoro. Infatti su quell’asse Antonio ha posto delle onde, una citazione dei tralicci, simbologie elettriche. E poi la piantò in terra, come un albero, come se ne aspettasse dei frutti, una stele, proprio dove si biforcano i sentieri uno va verso il bosco, l’altro verso la casa. Proprio lì pose il suo cippo, il suo ricordo, omaggio della civiltà operaia che abitò la grande casa. La intitolò “Seduta verticale”. Ma questa è solo una parte della storia, appunto la lunga panca. Fu l’inizio. Anche noi volevamo un grande tavolo conviviale. Successe un Primo Maggio di dieci anni dopo, nel 2014, prevedendo un afflusso di gente notevole (arrivarono 300 persone) Antonio costruì un lunghissimo tavolo, nel giardino, sotto gli alberi. Volle riciclare le passarelle zincate che erano servite per il ponteggio della casa e le dispose a due a due su dei supporti, anche questi, riciclati da tubi Innocenti e così diventò un tavolo lungo più di 15 metri e per le panche, egualmente utilizzò le passarelle.
Fu una bella festa, gioiosa e canterina. Un anno, nel 2016, facemmo diventare la tavola “Mare Nostrum”. Successe con il gruppo aquilano “Animammersa” (Antonella Cocciante, Patrizia Bernardi, Rita Biamonti) che dopo il terremoto presero a “ricucire il mondo” con le pezze di lana lavorate ai ferri o all’uncinetto. Hanno realizzato in tutta Italia straordinarie installazioni poetiche e civili. Lanciavano un tema, e da tutto il mondo arrivavano all’Aquila migliaia e migliaia di “pezze colorate”, una protesta, un’applicazione solo apparentemente domestica, che invece si trasformava in un manifesto di protesta collettiva. L’installazione si intitolava “Mare Nostrum” e voleva ricordare le sofferenze del mare a causa della plastica e dei cambiamenti climatici. Il tavolo di 15 metri si trasformò in mare per un po’ di giorni, fu coperto da centinaia di pezze verdi, azzurre, blu, un mosaico d’acqua spumeggiante. Poi tornò grigio. Chi scrive non fece altro che lamentarsi per quella “lunga macchia grigiastra” che sembrava deturpare la vista…. Suggerivo di dipingere tutto di verde bosco, così quella striscia anomala si sarebbe dissimulata. Poi successe che allo scoccare dei compleanni: 100 anni per la Casa e 10 anni per la Land Art, all’inizio del 2019, si cercava un simbolo, un tratto d’unione che testimoniasse il passaggio da Villaggio Operaio a Villaggio artistico. Antonio pensò che l’umile, calpestata, ma anche salva-vita, passarella potesse diventare proprio quell’emblema del lavoro operaio-artistico. Così, con il curatore Andrea Baffoni, e con il nostro “gemello” perugino Pippo Cosenza, si chiamarono 16 artisti (8 più 8) che accettarono la sfida di ripulire la tavola zincata (dal cemento, vernici, ecc), e poi dipingere e proteggere il lavoro in modo che potesse stare all’aperto. Ecco un altro ponte, il passaggio: dalla Galleria Elettra, nel seminterrato della Casa, potevano uscire quelle opere pittoriche che, una volta open air, sotto le intemperie, avrebbero potuto partecipare di diritto alla Land Art del Furlo. I 16 artisti accettarono la scommessa, passando dalla tela alla lamiera zincata, si misero al lavoro, e il giorno di Pasquetta, il 22 aprile ci fu la grande festa di presentazione per la TAVOLA DELL’ACCOGLIENZA, con la nuova aereoscultura di Sorace, un angelo benedicente, anzi “Un signore con le ali molto piccole” (citando Marquèz). Anche quella fu una festa molto partecipata. Si mangiò sulla tavola (e ci fu qualcuno che disse: “alla faccia di chi diceva che con la cultura non si mangia”). Poi si presentò opera per opera al pubblico, grazie ad Andrea Baffoni che le illustrava.
A quel punto, la tavola è diventata Opera d’Arte. Opera collettiva, mosaico di sedici artisti, in permanenza nel Parco di Sant’Anna. Ma ogni tanto, esce dal Parco, va in mostra in posti prestigiosi. E’ una festa mobile. Una collettiva orizzontale.
La prima uscita, come presentazione nazionale, avviene il 3 ottobre, dentro il cortile della splendida Rocca di Sassocorvaro (PU).
Succede nell’occasione del Premio Rotondi per l’Arte, assegnato quest’anno per le Marche alla Casa degli Artisti, e, grazie alla collaborazione dell’attivissima proloco di “Sasso” il 3 ottobre è diventata una festa corale. Seconda uscita, al Museo MACRO di Roma, il 5 e 6 ottobre del 2019, invitati dal “padrone di casa” Giorgio de Finis, si parla della Tavola dell’Accoglienza, e dei 10 anni della Land Art al Furlo. E l’Opera, attorniata dai suoi 16 artisti, le Dame e i Cavalieri della Tavola Lunga, segretamente ricorderà la sua nascita…
cento anni fa sotto 3 ciliegi…
Siciliano, ma cittadino del mondo, ha frequentato l’Istituto d’Arte e l’Accademia di Belle Arti di Catania. Attratto dai fenomeni artistici americani, nel 1977 soggiorna a New York, dove visita gallerie d’arte e musei. In seguito, a Miami, approfondirà le strategie commerciali e gli allestimenti espositivi. Nel 1987 si trasferisce a Roma, dove per 10 anni lavorerà nella Galleria d’Arte dei Banchi Nuovi. Qui frequenta i più importanti artisti italiani e stranieri condividendo con loro esperienze di lavoro che gli danno modo di progredire nell’ambito delle conoscenze e delle tradizioni pittorico-plastiche. Fra i tanti, intreccia buoni rapporti con Giulio Turcato, Carla Accardi, Pietro Consagra, Uncini, Achille Pace, Elio Marchegiani, Michele Cossyro, e molti altri. Nella sua attività ha attraversato con risultati di grandi interesse la scultura e la perfomance art, ma il terreno che privilegia è quello della pittura.
Perugino, dopo aver conseguito il diploma al Liceo Artistico, Ballerani si laurea presso la facoltà di scultura dell’ Accademia di Belle Arti di Perugia, dove più tardi insegnerà “Discipline Plastiche”. Nel 1973 fonda il ”Centro Umbria Arte” una delle prime agenzie pubblicitarie del territorio nella quale svolge la sua attività lavorativa fino al 2000. In seguito, crea la “Totem” un’ azienda attualmente leader nel settore degli allestimenti.
Figlio di uno sbozzatore di statue, coltiva fin da bambino uno spiccato interesse per la scultura, le sue prime opere scultoree sono in travertino e in marmo. Da un po’ di anni esplora nuovi materiali, più leggeri e più adatti alla sua intemperanza di artista, come lo Styrol, che lavora con rapidità esecutiva e che consolida poi con vernici, colle e resine, secondo procedimenti tipici della scenotecnica teatrale.
Bresciana solo d’origine, ancora giovanissima, si trasferisce a Terni con la famiglia. Da sempre attirata, come calamitata, dal mondo dell’arte, comincia da autodidatta a sperimentare diverse tecniche espressive. La sua formazione si arricchisce poi, frequentando gli studi di noti artisti umbri, e da queste basi parte per rendere il suo stile sempre più personale. Riconoscimenti arrivano insieme ai consensi della critica e del pubblico. Le sue opere sono state pubblicate su riviste specializzate e su cataloghi a tiratura internazionale. Espone sia in Italia che all’estero, ed è presente in varie collezioni pubbliche e private. Famosi i suoi manichini “carnali” per tutù di ballerine, le rose damascene e le peonie, e
dormeuse e poltroncine “metafisiche” e iperrealiste.
“Pianista senza vergogna”, ama definirsi, ma i suoi concerti jazz sono sempre un successo. E un po’ricorda lo stile jazz anche la sua pittura che “racconta” come una graphic novel delle situazioni, anche dei sentimenti. Nato a Castglione del Lago, si diploma Maestro d’Arte, poi consegue la maturità artistica all’Istituto d’Arte di Perugia. Subito allievo di famosi pittori, diventa Docente ordinario in Discipline pittoriche e anche di “Nudo e composizione”. Ma non ama solo dipingere, insegnare e suonare, ha anche curato degli eventi culturali e realizzato servizi televisivi sui grandi protagonisti dell’arte Contemporanea. Ha cominciato ad esporre da giovanissimo, nel 1977, sia in Italia che all’estero è
presente su molte riviste e, dulcis in fundo è anche illustratore per libri letterari.
Amante delle sciarade e dei misteri, della storia dell’alchimia, come quella “in chiaro” della Massoneria, l’intellettuale palermitano-perugino ci sottopone una quadro sibillino. Strana quella scacchiera, e i pedoni poi, assurdi: sono 7 neri, 1 rosso e 9 bianchi, un chiaro gioco dell’assurdo galleggiante nell’azzurro. Ma poi, eccolo il segreto: quel tratto bianco su tutto che ci dice “era uno scherzo”. Pippo Cosenza, nella sua nuova giovinezza, dirige come un Cenacolo il suo “Spazio 121”, organizza mostre e Simposii, è pittore concettuale, materico, surreale è chiamato spesso in collettive europee. Dai pochi anni di frequentazione con La casa degli Artisti, ne è diventato stretto collaboratore e ottimo consigliere
e dalla mostra “Volta e Rivolta” a questa Tavola dell’accoglienza, c’è sempre il suo dotto zampino.
“E’ come un volo d’uccello, un guardare la Terra dall’alto, ho pensato a dei campi coltivati, come nelle foto del grande fotografo marchigiano Mario Giacomelli, alle stagioni che passano…” rivela l’autrice di “Visione”, Yvonne Ekman, concertista e ceramista di fama. L’amica, di più, la madrina della “Land Art al Furlo” non ha mai perso un’edizione, continuando a dare consigli e utilissime informazioni sugli artisti da coinvolgere. Con lo stesso entusiasmo si è buttata nell’avventura della Tavola dell’Accoglienza. Opera non facile, per via dei materiali, della pesantezza della passarella zincata, e di tutto il lavoro di pulizia preliminare che ogni artista ha dovuto compiere prima di dipingere. Forse ha
usato solventi chimici, forse una spazzola elettrica, “No solo olio di gomito”, ha risposto ridendo
Come ha spiegato il critico e storico dell’arte Andrea Baffoni, a proposito della tecnica usata: “… è una sorta di dripping controllato in ortogonalità guidate. Tutto diviene liquido e morbido e si ha come l’impressione che l’insieme si stia squagliando. È ancora quello slancio interiore al sentire, quella spinta verso qualcosa che tradisce le normale regole costruttive…” Lontana dall’action painting e dagli “sgocciolamenti” casuali, o addirittura dalla trance delle scritture automatiche, care ai Surrealisti, Arnhild invece, controlla, dispone, intreccia con rigore architettonico. E non è casuale neanche il titolo “Metropolis”, capolavoro di linee e di piani, algido, elegantissimo film di Fritz Lang. Arnhild Kart, tedesca,
Ancora e sempre: le mani, la scrittura, la donna. Le mani sono quelle, consunte, dell’artista sarda Lughia (Lucia) che da anni, nelle sue opere inserisce manufatti eseguiti spesso di notte, come questi 100 fiori immacolati all’uncinetto. E poi la scrittura: veloce, fitta, minuta, come quei lavori da amanuense creati per il Museo della Carta e della Filigrana di Fabriano (Marche) e il Museo del Tabacco di San Giustino (Um- bria), che hanno raccontato al mondo la fatica esangue delle donne “tabacchine” e “cartare”. Infine la donna: in attesa, di schiena, testimone muta ma severa, frontale nella sua verità/nudità, una figura che è diventata un marchio, un timbro a caldo sulla pelle. E non si può tralascia- re il mare, quell’infinito azzurro amniotico della Sardegna in continua nascita; elemento imprescindibile nell’ispirazione e nella vita di Lughia, qui ripetuto mille e mille volte.
Lo spazio-tempo, un enigma senza soluzione, nel solco labile di un perenne movimento che separa passato-presente-futuro, con distinzioni arbitrarie. In questo caso il “cronotopo” rappresenta una forma di interconnessione artistica, attraverso la quale ci si impadronisce dei singoli aspetti di un tempo e di uno spazio, storico o fantastico che sia. Nel” cronotopo” la fusione dei connotati spaziali e temporali di una determinata epoca si attua in un riappropriarsi del passato e degli uomini che lo abitano, mentre per la fisica rappresenta soltanto la struttura quadridimensionale dell’universo. Introdotto dalla relatività ristretta, è composto da quattro dimensioni: le tre dello spazio (lunghezza, larghezza e profondità) e il tempo, e rappresenta il “palcoscenico” nel quale si svolgono i fenomeni fisici.
“… spezzò il pane, lo diede ai suoi discepoli, e disse: / Prendete, e mangiatene tutti: /questo è il mio Corpo / offerto in sacrificio per voi./ Dopo la cena, allo stesso modo, / prese questo glorioso calice /… lo diede ai suoi discepoli, e disse: /Prendete, e bevetene tutti: /questo è il calice del mio Sangue /… Fate questo in memoria di me.” Come sono intense le parole dell’Ultima Cena, le si sentono sempre per chi si avvicina all’Eucarestia, ma si possono “rivivere” anche in una cena amorevole. Lo sa bene la pittrice umbra Piersigilli, che come artista conosce bene il sacrificio di sè per gli altri, e, oltre alle sue famose città, ritrae corpi di donna con una intensità quasi sacrale. Il titolo, ricorda la pratica del
“Nyotaimori”, quando una donna (forse per danaro) si trasforma in tavola apparecchiata, e sul suo corpo si mangia sushi.
E’ stato fra i primi dei 16 artisti, i Cavalieri della Tavola lunga, ad accettare la sfida. Una tavola è una tavola…si potrebbe ripetere con Gertrude Stein (ricordate? Una rosa è una rosa..), e quindi se è tavola, che tovaglia sia! Ironico e disincantato, Quadrini è artista eclettico: ama anche la scultura, la fotografia, il restauro. Gioca con la materia e ricompone, ricicla oggetti perduti. L’artista proviene da un turbinio di esposizioni come a Bratislava, Sharm El Sheikh, Capri, Praga, Milano, Lodi, Frosinone, Roma, Bruxelles, Cesenatico, Cairo.. La sua mano conquista tessiture ed orditi di panorami reali, ma anche visionari, sospeso tra sogno ed emozione. Ha fondato il gruppo “Post Spazialista”, è stato alla
54° Biennale di Venezia. Fra le ultime mostre: Spello, Vico del Gargano, Dragoni.. Le sue opere sono in luoghi privati e pubblici e in luoghi prestigiosi come il Vaticano.
Cafal è un luogo fisico, villaggio della Guinea Bissau, ma è anche un luogo dell’anima e della memoria per Sisto Righi. Uomo, artista, dalle tante vite, dopo anni di nomadismo in giro per il mondo per la sua sete ci conoscere e conoscersi, Sisto approda in un Gruppo di Volontariato, una seconda famiglia, e subito parte per l’Africa. “Non si sa che cosa vuol dire morire di fame fino a che un bambino non ti muore fra le braccia”, ha detto Sisto che in Africa ci ha passato cinque anni durissimi e commoventi. La sua tavola è un inno all’amore, alla gioia, alla pace, all’amicizia.
Dopo la sua fortunata presenza alla Biennale di Venezia, e dopo l’eclatante mostra in una grande azienda del veronese dove si smaltiscono i rifiuti, Sisto è sempre più propenso a fare della sua arte una testimonianza, un esserci per gli altri.
Il caso e la fortuna di nascere nella Valle del Barocco, nella provincia di Catania, poi proseguire nella ricerca del bello al Liceo e all’Accademia, infine, il lavoro nel mondo del restauro. Come si chiama tutto questo se non il “profilo di un artista da giovane”? Ma il “segno”, il marchio a fuoco, nella vita di Seria è stato approdare nel Museo Luigi Capuana, dove sono custoditi i cimeli e gli arredi posseduti dal grande scrittore verista. Già il Verismo. Che grande amore per Salvo. La Storia degli ultimi, il mondo visto dai poveri, oggetti nitidi, senza giri di parole, parole del popolo,
fuori dai salotti borghesi, dialetti e corpi si affacciano nella letteratura, erompono sulle pellicole tremolanti. L’eterna contrapposizione tra ricchi e poveri. Ecco “Il gusto e la fame”: da un lato, il lusso, la gola e dall’altra parte, si strappa la vita con i denti. Tutto Vero.
“Set” è un po’ il simbolo di questa Tavola dell’Accoglienza, ideata da Antonio Sorace, per festeggiare i 100 anni della Casa degli Operai e i 10 anni della Casa degli Artisti. Vuol dire, vieni, accomodati, il tavolo, il set, è pronto con piatti e bicchieri, un po’ di pazienza, sta arrivando il buon cibo. La passerella, il camminamento su tavola zincata, è stata presa come rappresentazione oggettiva del lavoro operaio, un’evo- cazione, un ponte fra passato e futuro. “E la cosa che mi piace far notare”, dice l’autore, “è che ogni tavola è aggrappata all’altra con delle “manine”, perché abbiamo bisogno degli amici, degli altri, del viandante che ci porta notizie e affetto”. E così Sorace ha apparecchiato (a
modo suo) un tavolo di legno, come se aspettasse qualcuno, lo ha fotografato, e il resto del lavoro è in tavola!
Due amanti, ieri, oggi e domani, si nutrono e si amano, in un godimento circolare, sinuoso, morbido, anche il gatto tigratto ne fa parte. Bella la definizione della suo modus operandi: “Mi piace cogliere la scena un attimo prima che la parola la definisca”. Alla Taddei piace il preverbale, l’istintuale: nel tempo ha affinato una sua forza rabdomantica nel cogliere umori e passioni, percepire quel “guizzo del cuore”, altra sua defini- zione, prima che si richiuda il sipario delle convenienze. Patrizia racconta di un inizio concettuale, quando per esprimersi usava la fotografia, cercava tecniche e materiali di un tempo, innamorata dei telai e delle antiche tele. Poi il periodo “giapponese”, dove tutto è gesto, simbolo, calligrafia, il tempo dei microcosmi d’acqua su carta di riso. Seguono il mosaico, la ceramica. La prima mostra nel 1974, senza mai saltare un anno, in Italia e nel mondo.
Mauro Tippolotti nasce nel 1948 a Perugia dove vive e lavora. Inizia da giovanissimo la sua formazione, “descamisada” e diversificata, con la frequentazione di ambienti culturali off- off e underground; ma sempre aperto alla lezione di maestri riconosciuti.
Da ogni aspetto della cultura, intesa nella sua più ampia accezione, accoglie stimoli ed insegnamenti, compresi quelli che provengono dai vicoli della sua città. Esperienze lavorative e di studio più volte interrotte, svolte in vari luoghi d’Italia e d’Europa, gli consentono di aprirsi alle diversità culturali e sociali che si manifestano con clamore negli anni ‘60 e ‘70. Il successivo impegno sindacale e politico e una serie di incarichi pubblici ed istituzionali, gli hanno poi permesso di vivere intensamente le problematiche sociali dell’oggi. Da diversi anni, esprime nella pittura e nella scrittura le inquietudini e le suggestioni del nostro tempo
di Elvio Moretti
La “tavola” come soggetto e oggetto è stata spesso protagonista nella storia dell’arte, e quindi non si può dire che rappresenti una novità. Così come i materiali utilizzati dagli artisti dell’opera presentata al Furlo, “La Tavola dell’Accoglienza”, non sono un’innovazione, però va rilevato l’uso di un materiale riciclato, che può dare risultati straordinari, non solo in termini di arricchimento del contesto ambientale, ma soprattutto in termini di esperienza estetica e sociale. Non c’è un uso dello scarto, della materia seconda, del rifiuto, e quindi del riciclo, più progettuale dell’opera d’arte per promuovere, sul territorio, la lotta al degrado, la costruzione dell’identità locale e vincere l’indifferenza. Ne abbiamo un esempio con la “Street Art” che spesso “ricuce” gli strappi sociali delle periferie, o della Riciclart, dove gli artisti usano come base oggetti riciclati, come già succedeva nell’Arte Povera. Che cos’è il rifiuto? Per la legge italiana è: “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l’obbligo di disfarsi”. Questa definizione sentenzia la perdita di possesso e la morte senza esequie del rifiuto attraverso lo smaltimento. Invece, alla Casa degli Artisti del Furlo, questo triste destino non accade. I “camminamenti”, le passarelle, che costituivano le impalcature utilizzate per il restauro della casa, non sono tate accantonate, o impilate chissà dove, sono state trasformate, prima in una tavola gaudiosa per un Primo Maggio, poi in “tele” da dipingere. Ogni artista, pur partendo da condizioni uguali per tutti, disponeva soltanto di un supporto di lamiera zincata di 50×200 cm, ed era conscio che la sua opera sarebbe stata sottoposta alle intemperie, come un soggetto di Land Art, poteva però utilizzare materiali e tecniche diverse: colori acrilici, smalti, resine, plastiche, stampe, e graffiature, dripping, velature… cioè poteva personalizzare l’opera senza alcuna costrizione o direttiva. La sola certezza era che la sua sarebbe stata solo la sedicesima parte di un’opera collettiva. Non era stato previsto neanche uno schema di montaggio prima della realizzazione delle singole opere, per cui il risultato finale, si potrebbe definire di totale anarchia.
La “Tavola” può essere montata ogni volta con uno schema differente, quindi considerando le sedici “tessere” di questa specie di mosaico, per calcolare le molteplici possibili combinazioni di composizione basta fare 16! (sedici fattoriale) con un esisto di ben 20.922.789.888.000 possibili soluzioni tutte diverse tra loro, davvero impensabile provarle tutte. Questo già ci consentirebbe di definirla un’opera davvero singolare, ma ancora una volta, non è solo questa la sua specificità. Un qualche raffronto potrebbe essere tentato con le opere di Daniel Spoerri inventore della “Eat Art” come performance interattiva, ma l’artista svizzero si limitava a “congelare nel tempo” la sua tavola, spostando l’asse dal piano orizzontale, dove gli ospiti avevano consumato il pasto, a quello verticale della parete. Nella Tavola dell’Accoglienza invece il processo è opposto: è una “tela” dipinta che potrebbe anche essere appesa alla parete, ma la sua finalità è, e rimane, assolutamente orizzontale, come unacollettiva lunga 16 metri, una mostra mobile, che va dove è richiesta. Infine, la cosa sorprendente e un po’ provocatoria, è che nessuno si sognerebbe mai di mangiare su un dipinto, in una condivisione totale di arte e cibo, mangiando con gli occhi gustando con lo spirito.
Vogliamo lavorare collettivamente per salvaguardare il paesaggio, la biodiversità e promuovere l’arte sostenibile. La Bellezza come necessità e Bene Comune.
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